L’Associazione Gocce d’Amore Universale nasce il 27 febbraio 2007 a Venezia, con l’obiettivo di raccogliere fondi per l’adozione a distanza di orfani in Tanzania e nel mondo. Non ha scopi di lucro, non è una ONLUS e neppure una ONG, non riceve finanziamenti pubblici e si sostiene unicamente con il contributo volontario dei benefattori.
Quale fondatore dell’associazione, Claudio si reca una o due volte all’anno al villaggio in Tanzania, per esercitare il necessario compito di controllo e per toccare con mano i reali bisogni dei nostri carissimi ragazzi. Andare, vedere, provvedere, salutare con un arrivederci, constatare i progressi e lo sviluppo della comunità e dei singoli in ogni campo è un’emozione sempre nuova e rinnovata, condivisa con quanti l’accompagnano, fonte di arricchimento interiore.
Lo scambio di doni è sempre reciproco: si vive dei loro sorrisi, specie degli occhi luminosi dei più piccoli, della loro gioia, del loro star bene. Tutto ciò gratifica la nostra anima, rende vigile la coscienza, accresce quella humanitas di cui siamo fatti e senza la quale non possiamo dirci esseri umani. Loro, gli adottati, hanno smesso di avere fame, quella fame endemica che li paralizza e li ferma lì, in attesa di un futuro incerto, doloroso, spesso mortale.

Carità deriva dal latino caro, carne. Ci è caro ciò che è nostra carne e, fuori dal simbolo, ciò sta ad indicare la nostra comune appartenenza alla terra e al cielo. Non c’è altro che a Claudio Turina prema di più di questa carità viva, di questa Eucarestia attuata e realizzata sulle strade del mondo. Malnutrizione e malattie sono la prima causa di morte nel Sud del pianeta, ma è molto diverso sapere ciò da un telegiornale o dalla stampa, oppure constatarlo con i propri occhi. Vedere e sapere cambia radicalmente il nostro approccio al problema di ciò che chiamiamo sottosviluppo, termine sbrigativo e stereotipato.
Per scelta consapevole Claudio è diventato quindi un testimone, vale a dire un apostolo. E apostolo, in greco, significa appunto testimone. Il testimone per noi è apostolo della carità.
Poiché siamo scivolati nel linguaggio religioso che ci è proprio, mai lettera morta, dobbiamo chiarire che l’associazione non ha intenti settari di tipo fideistico, non si chiude a nessun credo, anzi si apre al confronto del pensiero, della Storia e delle storie individuali, della cultura e delle culture. Il suo tratto distintivo è sempre il dono, l’azione gratuita e senza aspettative di ricompensa che non siano quelle derivate dal sentimento di pace nato in una retta coscienza, in una visione di solidarietà. Non crediamo possa esserci apertura maggiore.
Non siamo ONG e neppure ONLUS, in quanto tali strutture devono sostenere costi organizzativi che noi non abbiamo: tutte le offerte ricevute per le adozioni a distanza vanno interamente impiegate per questo fine, al cento per cento. Se così non fosse, quell’euro al giorno necessario a nutrire accudire istruire un bambino che frequenti le scuole inferiori, e quell’euro e venti centesimi necessario per sostenere un adolescente che frequenti le scuole superiori, sarebbero insufficienti. La nascita di gocce (così chiameremo l’associazione, per brevità e con una punta di affetto per essa e per tutti i suoi membri) è stata un punto di partenza e un punto di arrivo.
Di arrivo, in quanto non avevamo mai sperimentato una forma simile di associazionismo e di aiuto; le adozioni a distanza sembravano impraticabili a causa degli sforzi economici ingenti e costanti che l’impegno reca con sé. Poi, dopo un ritiro eremitico di Claudio ad Ancona presso il vescovo Menichelli è maturata in lui la forza volitiva e la speranza di riuscire là dove non aveva ancora tentato di lavorare per la vigna del Signore. Ed ecco, a sei anni e passa di distanza possiamo dire con vera soddisfazione che tra tante difficoltà il bilancio esperienziale riguardo alle adozioni è stato ed è molto positivo. Abbiamo raggiunto un traguardo qualitativo che rispecchia i nostri programmi e le aspettative.
Queste ultime sono sempre in crescita, con un movimento in avanti in grado di coinvolgere nuovi amici e benefattori.
Non possiamo nascondere il dolore da noi provato, unito all’ansia per il domani quando si verifica un abbandono: se qualcuno, per sue ragioni lascia e smette di adottare un bambino, il nostro pensiero va alla giovane creatura ridiventata orfana, nuovamente in balia del vento. Ma il vento soffia dove vuole, recitano le Scritture, e dunque per quanto ci riguarda, basta restare al nostro posto e continuare a prodigarci in vista di nuovi incontri, di nuove aperture caritative, con la fiducia richiesta dal nostro ruolo. Se smettessimo di credere, non ci resterebbe che vivere chiusi in un guscio, ossia nella maledizione esistenziale tipica di questa nostra era della non comunicazione, paradossalmente la più fornita di mezzi tecnici informatici idonei a comunicare e la più sofferente di solitudine psichica, in Occidente. Gocce è anche punto di arrivo, certo. Se ci volgiamo indietro, alle spalle di Claudio troviamo oltre due decenni di apostolato consumato all’insegna della carità. Sono stati decenni che precedono questa avventura, e che tenteremo di illustrare. Nel passato ormai lontano Claudio viveva nell’agiatezza. Le condizioni economiche floride gli permettevano di compiere viaggi di piacere, durante i quali era colpito dall’indigenza diffusa, che però non lo toccava da vicino. Alberghi a cinque stelle, panorami da sogno, rovine archeologiche crepuscolari testimoni di passate grandezze lo rapivano e allontanavano dal povero. Ma nell’intimo egli covava l’insoddisfazione, l’assillo per le eterne e grandi domande irrisolte: D’où venons-nous ? Que sommes-nous ? Où allons-nous ? Da dove veniamo ? Chi siamo ? Dove andiamo ? Per parafrasare Gauguin. Soltanto dopo aver conosciuto Madre Teresa di Calcutta egli comprese che la risposta ai quesiti ciascuno può trovarla partendo dall’amore: siamo un coagulo d’amore, veniamo dall’amore creativo di Dio e tendiamo all’amore.
L’amore è dono e comunione, molto spesso è sacrificio…l’amore è esigente, con lui non è possibile bluffare, viene a chiederci un conto e l’obbedienza alle sue leggi dona sempre la pace.
Prima del grande incontro con la Madre Claudio doveva incontrare un fraticello francescano, a Padova, essenziale per la conversione. Il frate era un’icona vivente del santo di cui portava degnamente il saio. Da lui Claudio ebbe un ascolto strepitoso. Finalmente qualcuno si prendeva cura della sua anima per volgerla, con una metànoia a cui aspirava ardentemente, verso il cielo. Non ci dilungheremo su questo incontro in questa sede.
Dopo il dialogo con padre Fulgenzio Claudio fu capace di donare tutti i suoi beni superflui e si recò in India, prese i voti come Missionario Laico della Carità (LMC) nella Congregazone maschile fondata da Madre Teresa.

Visse poveramente nella megalopoli di Bombay, a Shanti Daan, la Casa della Pace per i moribondi, voluta da Madre Teresa. Lì deterse ferite purulente, medicò, lavò, consolò, imboccò, guardò la morte negli occhi dentro gli occhi dei più abbandonati. Fu una prova durissima. A volte pensava di non farcela: gli odori emanati da quelle piaghe, lo spettacolo degli storpi, la fame che aveva scavato le membra, i vermi che si nutrivano di carne viva lo sconvolgevano. Soltanto la preghiera, la recita del Padre Nostro e l’Eucarestia quotidiana potevano aiutarlo a sostenere le esperienze più sconvolgenti.
Ebbe la gioia di incontrare la Madre a tu per tu, di conversare con lei in serbo-croato – una lingua che gli apparteneva e lo affratellava alla piccola grande suora – e che ora non esiste più. Lei, già sofferente e carrozzellata, gli pose la sua santa mano sul capo, e fu quello il vero suggello, furono quelli i voti che lui prese per sempre davanti a Dio, tramite la Madre: voto di povertà, di castità, di obbedienza e voto di servire i più poveri dei i poveri di tutto il mondo, secondo la regola istituita dalla Beata di Calcutta. Li sente vivi in lui, i voti invisibili, tradotti in uno stile di vita che non disdegna la gioia di vivere ma non accetta lussi nè quotidiani sprechi, e sente l’obbedienza di una voce interiore indefettibile capace di rinuncia a favore di un ideale superiore. Per servire il più povero tra i poveri non c’è tempo e non ci sono forze da spendere in senso egoico. E’ una questione di priorità pratica.
Poi, nel tempo, si comprendono altre cose, si penetra sempre più l’aspetto del dono, la grazia, Dio. Senza la grazia di Dio la sola volontà umana è impotente. Senza la grazia i progetti caritatevoli sono asfittici, senza gioia, tristi, lamentosi. Un’attività filantropica che non esprima gioia è grigia, senza vita.
Il dono deve scendere da Dio al promotore e da questi al bisognoso. Il donatore dona in quanto Dio lo ispira. Per il non credente, l’ispirazione è identica, sebbene la persona la designi con un altro nome. In tal caso si può benissimo parlare di risposta a quella chiamata che viene dalle viscere della terra, è la domanda essenziale posta da Caino al Creatore, Caino ancora altezzoso ma tormentato da atroci rimorsi per l’omicidio compiuto, chiede al Signore, e si chiede: «Sono io il custode di mio fratello?»
Il mito è sempre fonte di illuminazione. Certo sì, siamo noi i custodi del nostro prossimo. Il problema sgorga dai primordi della civiltà, e sebbene le civiltà, salvo rare eccezioni, abbiano sempre disatteso la risposta in senso affermativo, privilegiando il potere alla vera solidarietà, non di meno il quesito resta lì, nella coscienza, ad inchiodarci a un « fare » comprendente il servizio.
Il promotore di un progetto caritatevole, chiunque egli sia e qualunque sia la sua fede, o la non fede, ha la grazia del missionario : sa andare, vedere, organizzare, comunicare e informare, raccogliere e donare.
Intendere il senso del dono è estremamente difficile, perché comporta la dimenticanza del dono elargito.
Dono e perdono, entrambi questi nobili gesti, comportano la dimenticanza, sia dell’offerta che del torto subito, a seconda del caso. Se non si intende questo significato, non sarà possibile donare nè perdonare e subentrerà la sofferenza, sorta in noi a causa di fantasie di padronanza e di possesso. Il dono fatto dovrebbe o piacere o sevire all’altro, non a noi. Un progetto umanitario deve servire ai bisognosi. Una casa per gli orfani deve accogliere gli orfani. Gli orfani non possono essere che accolti gratis (Grazia), con pazienza e carità. La carità senza pazienza è violenza, imposizione, offesa.
Il povero gioisce del dono se gli viene dato con pazienza, con il sorriso, con gioia, scherzo, altrimenti ciò che viene dato è quasi una sottolineatura della sua condizione di bisognoso. Pazientare con l’altro e per l’altro è compatire, cioè patire il disagio dell’altro, in tal modo il disagio diventa nostro e lo capiamo meglio.
Dopo l’esperienza indimenticabile vissuta a Shanti Daan, per il missionario Claudio iniziò quello che chiamiamo il « periodo di Gurgaon ». Gurgaon è una città situata presso l’aeroporto di Delhi. Claudio vi si recò insieme a padre Sebastian, Superiore Generale dei Missionari della Carità Contemplativi, e con l’amico romano Marino, architetto, allo scopo di realizzare un nuovo progetto caritativo: iniziare la costruzione di una nuova casa, per l’acquisto della quale egli fece un’offerta sua personale. A Gurgaon rimase circa sei mesi. Vide costruire le mura di cinta della prima casetta, scavare le fondamenta della casa degli ospiti e trivellare il pozzo, fu uno dei primi a berne l’acqua che sgorgava dal tubo di ferro.
A Gurgaon lui e altri Missionari della Carità andavamo a portare un minimo di cibo ai malati dell’Ospedale Civile (civile, almeno lo fosse stato!), i quali vivevano in totale abbandono, praticamente senza cibo e senza farmaci. I missionari tagliavano loro i capelli e le unghie, li rasavano.
Claudio ha dovuto conoscere il dolore di cui trasudava Shanti Daan, la casa dei moribondi, e la miseria di Gurgaon, ma ha voluto e dovuto conoscere anche la vita di strada dei bambini abbandonati che pullulano sui marciapiedi di Bombay; ha voluto visitare e vivere nelle barracopoli, negli slums dove le fogne sono a cielo aperto, dove non esiste sapone né carta igienica per la moltitudine dei diseredati, tanto per fare un esempio dell’immenso disagio. Quindi spinto da una tale esigenza molto potente, ritornato a Bombay lasciò Shanti Daan, che costituiva comunque una sicurezza, la certezza dei pasti assicurati a tutti, e un tetto sopra la testa per ciascuno. Lasciò un letto per dormire in terra su una stuoia e visse in una topaia di 12 metri quadrati insieme a diversi volontari indiani senza acqua e senza un bagno. Si recava ogni giorno nell’inferno della strada per dare nutrimento all’infanzia abbandonata, per lavare corpi infetti, tagliare capigliature piene di pidocchi, e insegnare l’alfabeto stando seduto in terra con le gambe incrociate.

A questo punto Il compito quasi sovrumano che si presentava ai volontari di strada era di raccogliere fondi necessari all’acquisto di una casa decorosa in muratura dove ospitare i bambini di strada.
Spettava a Claudio tornare in Italia e portare a termine un’impresa quasi disperata. Nel rivisitare gli anni trascorsi a volo d’uccello, non sa neppure lui come abbia fatto a riuscire nell’intento. Non può che ringraziare il Signore, la sua mano amorevole che lo guidava e guida lì dove può trovare ascolto. Non può che ringraziare tutti i numerosi benefattori incontrati nel momento più giusto.
Nel gennaio 1997, accompagnato da amici triestini, Claudio si trovava felicemente a Bombay per l’inaugurazione della prima casa acquistata per gli orfani, rinfrescata da alcuni operai con l’aiuto degli stessi ragazzi. Era bianca fuori e azzurra dentro, l’avevano voluta con i colori del sari di Madre Teresa. C’era un cortiletto, in seguito chiuso per ricavare una stanza in più; inoltre « rubarono » parte della strada per realizzare la classica veranda delimitata da un’inferriata. Ora si trovavano nello slum di Tagore Nagar (Vikhroli).
A questa prima casa ne seguì una seconda.
Successivamente, sempre con il sostegno degli amici benefattori italiani, i missionari allestirono una scuola di taglio e cucito e un piccolo dispensario.
Il compito di Claudio in India volgeva ormai al termine. I missionari avrebbero potuto continuare senza di lui, chiamato e richiesto dall’altra parte del mondo a svolgere il suo apostolato, sempre a favore di bambini orfani senza casa.
Il bisogno più ugente è ovunque e « i poveri li avrete sempre con voi ».
Egli ha imparato ad abbandonare ogni presa o sentimento di attaccamento anche in relazione alle opere caritatevoli. Queste hanno una propria anima, proprio come i figli che crescono e camminano soli.
La sua indole innata di viaggiatore, ora divenuto pellegrino errante alla maniera dei monaci, l’avrebbe portato ben presto in Africa.
Ancora prima degli anni in India, aveva vissuto un’altra esperienza importante e altamente formativa, anche se breve, in Albania e quindi a Roma presso la « CASA SERENA », sempre insieme ai Missionari Contemplativi di Madre Teresa.
Negli intervalli tra un viaggio e l’altro all’estero, in questi decenni ha sempre lavorato gratuitamente a Venezia e altrove nell’assistenza ai malati terminali di AIDS, anch’essi ultimi tra gli ultimi, poveri tra i poveri, spessissimo vittime di una imminente morte annunciata.
Fu proprio un simile drammatico percorso che si rivelò utilissimo nella sua missione successiva.
Nel 2001 Claudio compì il suo primo viaggio missionario in Africa, in Guinea Bissau, presso la missione francescana di Cumura. Era atteso nel lebbrosario, ma si fermò poco tra i lebbrosi dove il suo aiuto non era indispensabile. Invece espletò il servizio di volontariato nel reparto ospedaliero tubercolotici. Lì trovò una situazione a dir poco disastrosa, “terrificante” secondo le sue parole. La situazione era complicata perché la struttura ospedaliera era gestita dallo Stato ma sovvenzionata dalla Comunità di Sant’Egidio di Roma. La verità era che da Roma non si faceva vedere mai nessuno, raramente giungeva il denaro necessario per le spese di sostentamento, per i medicinali, l’affitto. Sporcizia, lamenti di bambini e vite terrificate dal male, questo era il panorama proprio in concomitanza del crollo delle Torri Gemelle a New York, di cui ci dolemmo nel mondo intero. Nessuno invece poté dolersi per i dimenticati di Cumura. Ma c’era per loro uno sguardo attento, amoroso.
Racconta Claudio: “Ciò che mi questionava era il fatto che, se un malato di TBC viene regolarmente nutrito, curato con la terapia del caso, non dovrebbe morire di tubercolosi, se si escludono i casi estremi, disperati. Ma lì sembravano tutti disperati. Grazie alla mia esperienza con i Missionari di Madre Teresa e con i malati di Aids a Venezia, intuii che essi morivano a causa dell’aids, ma questo non si poteva dire, in quanto non esisteva il test dell’HIV.
Dovevo tornare a Venezia, contattare i benefattori, trovare ancora una volta i fondi per l’acquisto del test, di medicinali, di Nevirapina, e coinvolgere medici specialisti ad accompagnarmi laggiù. Ne parlai con i Superiori francescani e quindi con il loro assenso partii”.
Sì, a Cumura i malati ebbero quanto mancava loro. La situazione migliorò enormemente.
In Guinea arrivò anche altro personale medico, informato e indirizzato dal nostro missionario, che venne da loro scartato, dimenticato dagli specialisti in carriera, proprio come un servo inutile. Il nuovo staff sanitario mise in pratica tutte le sue intuizioni, appropriandosi dei suoi progetti e fregiandosene con la stampa italiana, senza neppure l’accenno di un grazie.
Perché?
La pietra scartata è angolare, recitano le Scritture, sorregge il tempio: nella metafora il tempio è immagine del genere umano, sempre sostenuto grazie a figure come questa del nostro instancabile globetrotter della carità.
Si tratta di esseri speciali, conosciuti o meno, la fama ha poca importanza, è ininfluente in relazione agli esiti di qualunque buona impresa a carattere sociale. Perché parlare allora della dimenticanza e dell’oblio toccato a Claudio, come pure a tante anime belle in innumerevoli situazioni? Perché il percorso spirituale seguito da Turina è emblematico di un cammino dove l’io egoico tende sempre più a scomparire, per fare posto ad un sentimento di gioiosa rinuncia. Rinuncia certamente conflittuale, all’inizio dolorosa, capace di colpire il naturale orgoglio che alberga in ciascuno. Ma in seguito si comprende che trattasi di una rinuncia apportatrice di pace e immensa libertà. Solo chi è distaccato non ha padroni terreni, non soggiace al gioco abituale del potere, dell’apparire, della insignificante vanità. Sottolineiamo ancora le parole del missionario: “Ho imparato il senso del dono: donare e andare, perché il dono non ci appartiene più. Il vero dono è saziare l’altro, vestirlo, alloggiarlo, medicarlo, ascoltarlo e lasciarlo andare o andare come fa il Buon Samaritano del Vangelo”.
Siamo pronti a cambiare scenario e, come in un film, ci spostiamo in Sudamerica, in Perù. I legami invisibili e solidissimi della carità portano il Nostro a viaggiare ovunque, chiamato là dove le situazioni sembrano irrisolvibili. Con la libertà del suo libero spirito e con l’amore dentro come bagaglio, l’apostolato di Claudio si volge verso Cuzco, Perù, (3400 metri s.l.m.) e a Chinchavito, località sul fiume Huallaga, a 20 Km dalla famosa località di Tingo Maria, nota per essere stata la capitale della coca e zona remota usata come rifugio da Sendero Luminoso.
Siamo nel 2002, a Cuzco opera il parroco cattolico padre Angelino. È lui a invitare Claudio, affiancato in questo viaggio dall’amica benefattrice Maria Antonietta Mazzer, detta Mia. Siamo propensi a non nominare quasi mai gli amici ed i benefattori, per diverse ragioni, e ne basti una, quella essenziale: non vogliamo enfatizzare il singolo, dato che ogni dono si compie con il concorso di tutti, ai quali va il ringraziamento più sentito e profondo.
Anche Claudio non è importante come individuo quanto come emblema del nostro fare. È pur vero che senza la sua fede e senza il suo lavoro indefettibile probabilmente niente sarebbe avvenuto per le popolazioni beneficiate e Gocce non esisterebbe, ma, volendo, avremmo incontrato un altro Claudio, un vocato, votato e rivolto verso gli ultimi. È pur vero che siamo legati da affetto sincero verso la sua persona, ma questa è un’altra storia.
Vogliamo ricordare l’amica Mia per un fatto importante: la signora stava attraversando un suo momento esistenziale buio, doloroso, segnato da prostrazione e malattia. Tramite questa esperienza di carità Mia, con l’aiuto costante e l’assistenza infermieristica di Claudio, è riuscita a vincere le contingenze negative, sulle altitudini andine ha ritrovato sorriso e volontà di vivere, fede, energie e rinnovata speranza. Quanto è miracolosa la montagna, il volgere lo sguardo in alto, a quel cielo benigno che sempre ci guarda, anche quando non lo guardiamo più.
Tanto, per dire che la carità aiuta e beneficia in primis il donatore, con modi e mezzi non materiali; essa va dritta al senso della vita, ci fa rinascere ogni volta che stendiamo la nostra mano per afferrarne un’altra, di un “parente” nell’anima, lì dove siamo davvero tutti fratelli, tutti destinati a un breve fiato di esistenza terrena e poi all’eternità, sempre sognata da ogni essere umano. Chi non vorrebbe eternizzarsi, infatti?
Solo la carità dice chi siamo, che SIAMO, siamo tutto e tutti nel dono reciproco, per sempre. Racconta Claudio: “Con Mia andai a Machu Picchu, visitammo tutta la Valle Sacra, provammo l’emozione di viaggiare sul trenino delle Ande fino a Puno, visitando le isole del lago Titicaca, Arequipa e La Cruz del Condor. Le foto relative al nostro viaggio si possono ammirare nel mio libro COME LE PIETRE INCA”.

Il libro suddetto è stato stampato a Venezia grazie a numerosi sponsor, contiene il resoconto di un viaggio favoloso, ma non soltanto: è la testimonianza storica di un popolo, gli Incas, e del loro impero distrutto dalla brutalità del colonialismo occidentale. Testimonianza toccante e dovuta. Grazie alla vendita del libro (contenente numerosissime fotografie a colori), per la quale il missionario si è speso indefessamente con presentazioni in tutta la nostra Penisola, è stato possibile realizzare i pozzi d’acqua in Africa, di cui diremo presto.
Le immagini dicono più che le parole: a Cuzco, grazie alle suore di Lauro (Nola), è stata costruita una casa di accoglienza per i familiari dei malati campesinos che giungono da lontano fino all’ospedale di quella città, allo scopo di visitare i loro cari e non dispongono dei mezzi necessari per il soggiorno.
Da Cuzco Claudio passa a Chinchavito, dove il popolo ed i missionari vivono in condizioni miserrime, ai piedi delle Ande, all’inizio dell’infinita Amazzonia.
Lo spettacolo naturale è sempre bellissimo, la povertà sempre la stessa, niente pane e companatico, la gente si nutre in prevalenza con frutti tropicali, vive in case costruite con pali, tavole rotte e frasche.
I missionari avevano un bellissimo forno per cuocere il pane a legna, ma non avevano la farina. Vivevano in una casa in muratura con un primo piano ma non disponevano della scala per salirvi, così di sera si arrampicavano come le galline, che tra l’altro non avevano perché in quella zona tropicale spesso le bestie muoiono per strane malattie. Ecco Claudio ritornare a Venezia, alla fine di novembre, per raccogliere i fondi, simile a frate Cristoforo nella sua questua. Gli amici generosi sono tanti. Tante sono purtroppo anche le risposte negative, tanti gli sguardi seccati da parte di chi non desidera essere importunato. Questa è la croce sopportata da ogni autentico missionario che vive incarnando lo spirito evangelico.
Se pensiamo ai soldi che spendiamo quotidianamente nei bar, o per vestiario superfluo nonostante la crisi economica colpisca il nostro mondo benestante, quanta tristezza proviamo nel constatare l’indifferenza che ingrigisce, spegne lo sguardo e annoia il cuore dell’uomo bianco! E quanta fatica smuovere tali macigni. Quanta fatica parlare a chi vuole restare indifferente alla sorte dei più. E pensare che la nostra ricchezza è basata sulle risorse del pianeta, risorse di terre appartenenti a popoli lontani divenuti invisibili per noi, buoni soltanto a rifornirci di banane, cioccolata, caffè, diamanti, petrolio…con tanto lavoro durissimo, sottocosto e non pagato, spesso svolto dai bambini.
Claudio va a scovare le anime generose, ne trova sempre sulla sua strada a Venezia e altrove, le riunisce come un buon pastore, le informa, è testimone, è convincente, è vero. Tra novembre e Natale del 2002 riesce a spedire i soldi a Chinchavito per costruire la scala in cemento armato e comperare molti sacchi di farina.
Eccolo nuovamente in viaggio fino a Cuzco, dove una persona angelica, suor Maria Teresa, curava gratuitamente i malati di Leishmaniosi. A lei il missionario consegna l’Anfotericina B. Curava, perché suor Maria Teresa è morta di tumore polmonare fra la sua gente, povera come loro. Lei che è vissuta per trent’anni in quelle zone di aria pura.
Ecco Claudio nuovamente a Chinchavito, e lui stesso racconta: “Con grande piacere vidi la scala e salii come pazzo su e giù, per rendermi conto che c’era. Poi altra emozione alla Panetteria. Le scansie erano tutte piene di pane confezionato in varie forme, profumato, dorato, una meraviglia!” E ancora: “Prima di lasciare Chinchavito, ancora una volta radunai i missionari e chiesi loro se avessero avuto qualche progetto da realizzare. Mi dissero che avrebbero voluto aiutare i bambini dei campesinos, che abitano sulle alte montagne e, soprattutto quando piove, non scendono a valle per andare a scuola. Con il tempo l’abbandonano del tutto, poi si danno alla malavita o vivono nella più triste delle miserie, privi di tutto”.

Così, trovati i fondi, in breve tempo fu costruito l’ostello dedicato alla Beata Madre Teresa di Calcutta, che ospita una trentina di bambini. Poi, fu necessario fornire il paese di luce elettrica, e anche l’elettrificazione di Chinchavito viene portata a termine con l’intenso operato di Claudio e il nostro aiuto solidale!
Nel giugno del 2004 a Venezia, presso la prestigiosa sede dell’Ateneo Veneto, con il patrocinio dell’Associazione “Dante Alighieri” viene presentato in anteprima il libro “COME LE PIETRE INCA”, scritto da Claudio Turina e stampato con la sinergia di numerosissime persone, a cui va un pensiero di bene e un ringraziamento molto speciale. Il ricavato delle vendite è a favore di migliaia di contadini della Tanzania, per la costruzione dei pozzi d’acqua.

Altre manifestazioni benefiche e presentazioni dell’opera seguirono a ruota. I fondi raccolti furono sufficienti per fornire d’acqua circa 200 mila persone in Tanzania, nella zona di Mbarali, terra dei pastori Masai, nella Diocesi anglicana di Mbeya.
Abbiamo cambiato nuovamente la scena del nostro percorso. Gocce d’Amore Universale come associazione non è ancora nata, ma verrà costituita molto presto.
Nel luglio 2005 i lavori idrici presso Mbeya furono terminati. Claudio in Tanzania, ospite gradito del vescovo anglicano, visita la zona, e pure il parco stupendo di Mikumi, e la mitica Zanzibar, triste e tragico mercato di schiavi. Pochi sanno che la schiavitù a Zanzibar terminò soltanto alla fine degli Anni venti del secolo scorso.
Racconta Claudio: “La Stone Town di Zanzibar ricorda il Medio Oriente, ma anche Venezia. Colpiscono soprattutto i portoni delle case del centro antico, ricche di legni e bronzi lavorati finemente. Pregevoli anche gli edifici costruiti con i massi di corallo. Accanto alla Cattedrale Anglicana è stato edificato un monumento per ricordare la deportazione degli indigeni neri verso i paesi arabi e orientali in generale, impressionante per la sua veridicità!”.
È il vescovo anglicano di Zanzibar John Ramadhani (già invitato da papa Giovanni Paolo II ad Assisi nel 1986 per il famoso incontro mondiale di preghiera per la pace, come rappresentante della Tanzania e dell’Africa) a indirizzare Claudio verso il piccolo e poverissimo villaggio di Ngombezy, Comune nel distretto di Korogwe, Regione di Tanga, Tanzania.
Questo luogo splendido dal punto di vista paesaggistico è divenuto teatro del nostro apostolato. Siamo in collaborazione perenne con il parroco anglicano di Ngombezy fr. Joel Makame, referente di Gocce.
La zona è lussureggiante, natura “lussuosa” come tanto miseri sono i suoi abitanti. È facile accarezzare il sogno di tornarvi, facile innamorarsi di quella collina alle falde del Kilimangiaro. Difficile per noi è condividere la magra sorte di quei popoli, vivere insieme a loro nei villaggi privi di acqua potabile, di elettricità, di case decorose e degnamente abitabili, ma l’impresa, quando si è sorretti da una motivazione radicata, non è impossibile. Anzi, dopo gli orrori di Bombay e delle baraccopoli indiane, Ngombezy al nostro missionario sembra quasi un paradiso.
Egli rifiuta l’ospitalità “da ricchi”, in città, offerta dal vescovo anglicano locale, il diretto superiore di Joel; vuole soggiornare nel piccolo paese e conoscere i bisogni reali della gente, condividerne i pasti frugali, sempre uguali, bere l’acqua preziosa da non sprecare dopo averla bollita; osserva, constata la fatica e la pena dei portatori d’acqua che sono sempre ragazzi molto giovani, ma anche donne e uomini anziani, bisognosi di guadagnare qualche soldino. Essi vanno sotto il sole cocente con i bidoni sulla testa, e sorridono, nonostante…
Qui inizia l’impresa ardua, lunga e incerta delle adozioni a distanza di orfani indigenti in una società indigente. Claudio è sempre solo e deve ricominciare la raccolta fondi da zero, ogni volta, di fronte ad ogni nuova iniziativa benefica.
Qui, comunque, e bisogna dichiararlo a chiare lettere, a scanso di equivoci e di possibili facili illazioni, nessuno di noi benefattori, dal fondatore di Gocce all’ultimo arrivato, e ben arrivato!, lucra un centesimo dall’associazione. Viviamo tutti del nostro introito personale, sia esso un’entrata da lavoro dipendente o da libera professione, da arte, mestiere, commercio, lascito, patrimonio familiare, insegnamento, pensione, o quanto altro. Ciascuno compie gratuitamente quello che può a favore dei nostri cari ragazzi, e nessuno è tenuto a nulla, tutto è purovolontariato basato sulla parola e sull’offerta; nessuno è stipendiato o fruitore di “gettoni presenza”, come si suol dire. Ciascuno di noi è prezioso per quanto è e fa, senza gerarchie o particolari strutture organizzative, e che Dio ci conservi così, liberi di spenderci e regalarci, privi di costrizioni, regole o doveri che non siano quelli dettati dalla nostra coscienza.
Con le adozioni a distanza l’impegno è dei più seri e con la serietà abituale Claudio, durante il primo soggiorno a Ngombezy nel 2005, non promette nulla a fr. Joel.
Prima di assumersi un macro impegno sente la necessità di ritirarsi e meditare, non restando isolato su una montagna ma nel centro vivo di una città, secondo la pratica dell’eremita in città, appunto, dentro il gorgo della vita. Può farlo ad Ancona, accolto dal vescovo cattolico di quella diocesi. Qui vive per diversi mesi in una casa per preti in isolamento, nello spazio destinato a lui solo. Dona il suo lavoro alla Caritas per determinate ore al giorno. Con tale esperienza vuole provare a se stesso la portata della sua pazienza, “la capacità di accettazione del contingente quotidiano e soprattutto quanto sia sufficiente la presenza simbolica di Gesù per non sentire il bisogno di altre persone o cose”.
Notevole, in queste sue affermazioni, la centralità del simbolo, una sapienza che valuta con dovuta attenzione la necessità psichica di simbolizzare, considerata troppo spesso secondaria rispetto al raziocinio puro, mentre trattasi della facoltà primaria della nostra mente, senza la quale tutta l’impalcatura dell’esistenza e per noi umani della personalità, viene a crollare. L’approfondimento del discorso ci porterebbe molto lontano, troppo. Qui basta dire che Claudio, nei suoi ormai lontani trascorsi biografici, ha uno studio e una pratica della psicanalisi di tipo lacaniano e non può sottovalutare la portata del simbolo quale nostro silenzioso altro. Silenzioso, in quanto prelogico, strutturato in immagini, ma sempre forte e dirompente nel suo operare e manifestarsi.

Altro elemento forte della sua ricerca è quel rifarsi unicamente a Gesù. Al Dio interiore, che deve essere presenza costante di sostegno e guida del missionario. Diversamente un missionario non può reggere al carico. Siamo tutti così, nelle circostanze più impegnative ed essenziali, nelle relazioni, nell’espletare un lavoro e persino nel processo di guarigione dalle malattie: senza una direttrice, senza un punto fermo a cui agganciarci, diveniamo foglie al vento, incapaci di scelte e di tenace proseguimento verso un fine.
Il fine del credente è Dio, ovvero Amore, Agape.
Quanti pensieri nutrienti convivono in quest’anima in quei mesi di eremitaggio volontario. Dall’aprile all’autunno del 2005 la preparazione alla missione è davvero intensissima. Ecco alcuni stralci sintetici delle tematiche da lui affrontate :
Siamo ancora acerbi, quindi egoisti “L’egoista in quanto all’Amore è acerbo. Deve ancora ricevere quelle sostanze che addolciscono e fanno divenire Amore. La mente acerba non può essere generosa, essa è pari al frutto acerbo, senza fruttosio. Quando dico che ognuno fa quello che può, lo paragono al frutto che dà quello che è. Lo si può spremere finché si vuole, ma dalla sua polpa uscirà quello che è…”
Dinanzi a Dio
“Appena ci troveremo dinanzi a Dio, dopo l’ultimo respiro, alla Sua domanda: “Che cosa hai fatto della tua vita?”, cosa potremo rispondere? Forse ci potremo permettere di presentarGli, con una mano i peccati e con l’altra la nostra carità, tutto il resto sarà dissolto nel nulla”.
Alla fine della vita, ha scritto San Juan de la Cruz, l’importante è avere amato.
Ciò vale per credenti e per i non credenti, diversamente tutto il nostro essere qui si risolverebbe nella gara dell’arraffare affannoso, e tale spettacolo siamo ancora capaci di rappresentare con efficacia e cinismo.
Ma non solo. Esiste una commozione che smuove le viscere di fronte all’altrui mondo (e-mozione significa infatti questo: movimento in fuori) il cui simbolo è l’abbraccio. Ed è insopprimibile. Ci auguriamo tutti di maturare al sole della fratellanza che scalda e fa crescere tutti insieme, in un abbraccio comune.
Vorremmo poter essere non più homo homini lupus (ogni uomo è lupo per l’altro), ma homo homini deus (ogni uomo è Dio per l’altro). Tanto vera, quest’ultima locuzione, se crediamo di essere nel pensiero amoroso di Dio dall’eternità e di portare in noi la Sua scintilla, la Sua impronta. Claudio meditava e progettava. Tra un riferimento a Theilard De Chardin e una messa, un servizio reso alla Caritas e l’ammirazione entusiasta della famosa Fontana delle Tredici Cannelle nel centro storico di Ancona, la decisione venne presa. Lasciò Ancona in autunno.
Ritornò in Tanzania, con l’occhio vigile del creativo, l’attenzione alle esigenze prime da affrontare in quel luogo, dove era atteso con speranza.
Radunò la popolazione di Ngombezy e si rese conto di una sciagura invisibile, invisibile come tutto il dolore del resto: i bambini orfani erano ben 70 su una popolazione esigua, dei quali 30 orfani totali, 40 orfani di un solo genitore. La prima causa di morte qui è l’aids. Scattò la fotografia ad ogni ragazzo, per farlo conoscere ai futuri padrini o madrine. Iniziava la grande avventura delle adozioni. Essa dura tutt’ora, ci auguriamo che duri molto a lungo.

L’associazione dispone di un conto corrente bancario per le donazioni, e chiunque può controllare i movimenti di denaro. Il numero di orfani assistiti (essi si trovano anche in altri distretti e villaggi della Tanzania), non può superare il centinaio. Non abbiamo le forze per assumerci responsabilmente altre adozioni. Lo diciamo con sofferenza, in quanto i bisognosi sono sempre esorbitanti.
I bambini orfani sotto l’ala del nostro amore mangiano tre volte al giorno. Claudio ha insegnato loro a consumare una frugale colazione. Si tratta di un piccolo esempio concreto di progresso.
Prima, c’era l’abitudine diffusa di bere un tè e basta e poi affrontare la dura giornata.. Adesso è possibile nutrirsi anche con un panino imbottito da un frutto tropicale. Adesso c’è marmellata, o il burro, sempre poco, sempre in modo molto contato!
I bambini sono stati forniti di biciclette per recarsi nella città vicina dove frequentano le scuole. Non affrontano più a piedi le piogge torrenziali, il fango. Sono molto volenterosi, intelligenti, svegli. A pancia piena è più facile apprendere le lingue, l’inglese, o imparare la matematica, o le basi di un mestiere.
Non possiamo ancora costruire un pozzo a Ngombezy, è zona collinare sarebbe necessario scavare molto in profondità e le spese sarebbero da capogiro. Così, tra un pozzo e l’istruzione abbiamo scelto l’istruzione. Senza ombra di dubbio consideriamo la scolarizzazione dei ragazzi una priorità assoluta, insieme alla loro nutrizione e alle cure mediche. Infatti soltanto chi sa, chi possiede strumenti culturali puo’ decidere, può cambiare in parte la sua sorte e riesce a non sottostare allo sfruttamento e sa reagire, rispondere in modo pacifico all’ingiustizia. Vogliamo aprire una parentesi per esprimere parole di considerazione verso la natura e la cultura tanzaniana, ancora sconosciuta, quest’ultima, al grande pubblico occidentale, nei suoi aspetti più ammirevoli.
Non siamo i superiori maestri portatori di civiltà, siamo convinti di avere qualcosa da imparare dai nostri vicini, e vicini, simili nell’umano bisogno di felicità, siamo tutti.
Osserva Claudio: “Ciò che stupisce nella popolazione è il parlare sottovoce, la tranquillità della natura e della gente. Tutto qui è intenso, ma non sgargiante. Immenso, ma non volgare”. Come ci si nutre nel villaggio? “Si mangia polenta bianca molto leggera, e poi legumi, verdura soffritta, patate, pesce secco e frutta tropicale”.
Quali sensazioni rapiscono? “Dopo cena uscivo dalla mesta casa e alzavo lo sguardo al cielo. Durante la settimana di luna calante sembrava di poter toccare la Via Lattea, il cielo non era nero ma pareva luminoso per il grande luccichio di stelle, che arrivavano fino a terra.
Visitai i monti Usambara, a 1200 metri s.l.m, a due ore di corriera da Korogwe. Mi trovai in una foresta profumata, in un luogo da cui si ha l’impressione di vedere tutta l’Africa: Irente View. Si sale una stradina sterrata, un po’ in salita dopo l’albergo di lusso, ed ecco che d’ improvviso ci sitrova su un roccione con davanti e sotto l’immensità. È una visione da urlo”.
Un’etnia un intero popolo esprime la creatività nella scultura, nell’intaglio e nell’arte pittorica da sempre. Si tratta della gente e dell’arte Makonde, di cui diamo un piccolo saggio nella fotografia dei rinoceronti. L’etnia Makonde è stanziata a sud della Tanzania, ai confini con il Mozambico. L’arte antichissima di scolpire il legno si tramanda da una famiglia all’altra, ha il sapore di una iniziazione, è certamente un nobilissimo strumento per accedere, dalla figura sensibile, verso l’invisibile.
Le immagini scolpite con vera maestria in un unico pezzo di legno spaziano dalla riproduzione di animali alle figure umane, a strumenti musicali, tamburi e altri oggetti.
Sono sempre rappresentazioni apotropaiche, protettive, austere, eleganti, bellissime, ed essenziali nei tratti, negli sguardi e nel gesto fermato eternizzato. Esprimono una profondità che va dritta al cuore delle cose, al loro mistero.
Dobbiamo accennare e ricordare che Picasso si ispirò grandemente all’arte africana, ravvisando in essa una spontaneità e una intuizione che abbiamo perduto con le nostre infinite sovrastrutture mentali, la nostra barbosa e inutile burocrazia, con la nostra chiusura, con la diffidenza, con l’indifferenza… Quanta zavorra indossiamo, quanti scafandri.
La vendita di arte africana, oltre che una fonte di entrata, ha rappresentato momenti di aggregazione importante per l’associazione e Claudio, da vero amatore e antiquario quale è stato nel passato, si è molto speso in questo settore di valore, durante le numerose mostre organizzate. Un’altra nostra modalità importante di raccolta fondi negli ultimi anni è stata la produzione di libri dati alle stampe, di cui diamo testimonianza nella sezione letteraria della rivista. Ciò che ci fa onore, è un riconoscimento ottenuto da Claudio, come possiamo documentare nell’ attestato qui riprodotto. Si tratta di una Menzione Speciale conferita al nostro fondatore nell’ambito del Premio Martin Luther King per i diritti umani, dall’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia, di concerto con le Amministrazioni Comunali di Birmingham (Alabama) e di Roma, per il quarantennale della morte del martire cristiano.
La menzione è simile a una carezza sul capo di chi la riceve e di riflesso sul nostro, è come un bravo pronunciato da una platea imparziale, è un monito a non deviare dalla via, e recita:

Per il suo impegno incessante e creativo in difesa dei poveri del sud del mondo, creando una rete di interesse e solidarietà in grado di apportare benefici nel campo dell’istruzione, della sanità e dell’alimentazione di bambini e bambine che guerre e pandemie hanno privato di genitori e sostegno sicuro.

Roma, 4 aprile 2008

Torniamo agli orfani adottati, i prediletti, primi attori della nostra “sacra rappresentazione”..Essi sono Gesù incarnato, nostra eucarestia e la nostra resurrezione.
Studiano con profitto per esorcizzare e superare ciò che nell’esistenza quotidiana appare come una malasorte, ed invece è tanto tanto di più, costituisce un retaggio storico che ci coinvolge tutti. Studiano per essere loro, domani e già nel presente, più forti dell’aids che ha sotterrato i loro genitori e parenti; più forti di quella caduta tragica di un padre (magari avvenuta sotto gli occhi del figlio), salito sulla sommità dell’albero per raccogliere le noci di cocco e precipitato per un gesto maldestro, o per un momentaneo mancamento. L’uomo ha lavorato naturalmente senza alcuna protezione sindacale o legislativa, senza garanzia di risarcimento in caso di infortunio, o futura pensione o premio assicurativo a chi resta; ha lavorato senza diritti, ha dato tutto senza ricevere nulla.

I ragazzi studiano, oltre che per se stessi, anche per la comunità del villaggio tesa ora verso la speranza.
Studiano anche per quella madre vedova a cui sono stati sottratti i figli maschi da parte dei parenti del marito deceduto. Essi erano oggetto d’amore materno e possibile fonte di sussistenza anche per la nidiata, sempre presente, di altri figli, di sesso femminile questi, orfane e diseredate. Ma le donne, cosa sono le donne, specie nei luoghi in apparenza dimenticati da Dio? Ancora una volta nulla, soltanto bocche in più da sfamare, un peso morto, una tara.
Eppure sono le donne spesso a sostenere l’economia nazionale e multinazionale, anche in Tanzania, svolgendo i lavori più umili e debilitanti, come per esempio la faticosissima raccolta di alghe a Zanzibar. Schiene piegate sotto il sole cocente, dozzine e dozzine di ore passate ininterrottamente con le membra immerse nell’acqua per pochi centesimi, appena 25 cent al kg di alghe secche, racconta il nostro missionario…e ci meravigliamo, o scandalizziamo come farisei , quando le donne immigrate in Italia accettano di cadere, o sono costrette a cadere, nella rete della prostituzione, qui, a casa nostra? Ma che cosa hanno lì?
Ancora nulla.
Ma hanno noi, un piccolo “resto” di carità..
Benedetta l’alternativa della scuola. I nostri ragazzi, fin dalle elementari, comprendono che le ore scolastiche sono d’oro. Accettano regole dure: essi devono recarsi a scuola per tempo ogni mattina, prima dell’inizio delle lezioni infatti spetta agli studenti la pulizia dei locali.
E noi di Gocce abbiamo un’altra regola da far rispettare: il buon profitto. Fra i nostri studenti non esistono somari. Non devono e non possono esistere scansafatiche, si fa sul serio. Fanno tutti sul serio.
Prova della loro serietà e maturità, sono i quattro adottati a distanza, due ragazze due ragazzi, che sono stati ammessi all’università. Si tratta di un risultato grande portata, ne siamo giustamente orgogliosi.
Secondo una legge dello Stato, ottima per certi versi, in Tanzania gli universitari usufruiscono di una borsa di studio pluriennale che consente loro di studiare senza difficoltà e preoccupazioni di natura economica. Ad essi spetta lo studio, poi dopo aver raggiunto la laurea e trovato il lavoro, dovranno restituire l’intero importo anticipato dallo Stato. Non si tratta quindi di un regalo ma di un dono, da parte nostra, offerto con tutto il cuore.
I nostri quattro ragazzi, racconta fr. Joel a Claudio per telefono, piangono perché non sanno se l’Associazione troverà le risorse – si tratta di migliaia di euro – necessarie ad anticipare le enormi spese per il primo anno. Enormi per la Tanzania. Dice un noto proverbio nostrano: fatta la legge trovato l’inganno. Con ciò Intendiamo spiegare che sì, lo Stato anticipa il denaro, ma anticipa in modo posticipato, ritardato, appena dopo il primo anno di frequentazione universitaria arriva la prima rata del prestito.
Mon Dieux, torniamo sempre a bomba: le famiglie che non possiedono un risparmio di una certa consistenza, quattromila euro iniziali a studente (per i nostri una cifra lunare, astronomica…) quelle famiglie devono rinunciare al sogno. Ovviamente, nemmeno cominciano l’avventura, chi frequenta un liceo sa di poter proseguire fino alla laurea. Alla fin fine, è sempre il reddito, non il merito, a decidere le sorti dei singoli e a compiere le scremature per la formazione continua, il rinnovo della classe dirigente.

Non per noi. Noi faremo tutto il possibile per istituire un fondo universitario che permetta l’accesso universitario continuo ai meritevoli anche se poveri. Soprattutto se poveri. Sarà un nostro fiore all’occhiello.
L’assistenza ai giovani universitari per noi oggi rappresenta l’obiettivo immediato da realizzare, coronamento di una lunga tappa – l’istruzione superiore – e punto di partenza verso più vasti orizzonti, verso nobili obiettivi di attuazione difficilissima, dati gli scarsi mezzi economici di cui disponiamo e l’inesistente sostegno istituzionale su cui contare nel tempo. Voliamo davvero sulle ali della Provvidenza, e sulle ali della completa libertà. Non dipendiamo da alcuno, siamo senza padroni, siano essi di tipo religioso confessionale che politico.
In contemporanea, giacché amiamo le grandi sfide, abbiamo dato avvio a 5 progetti di sviluppo destinati a tutti gli abitanti del villaggio. Sono e saranno fonte di lavoro che muta e muterà lentamente ma radicalmente lo scenario splendido e miserrimo della vita a Ngombezy, dove le donne non posseggono il denaro per acquistare una gallina, gli uomini sono legati a lavori di sotto-sussistenza.
La popolazione è priva di strumenti produttivi, costretta all’uso di utensili millenari (vedi la semplice faticosa zappa) che non consentono un’accelerazione né alcuna variazione quantitativa nel ciclo di produzione.
È una popolazione priva di capitali, i quali permetterebbero la circolazione di beni, un minimo di accumulo di prodotti da smerciare al mercato più vicino.
Di fronte alla rovina, il missionario Claudio ha sempre ascoltato la sua voce interiore in grado di suggerire una pacifica rivoluzione. Realizzata sempre, quest’ultima, non secondo criteri personalistici o preferenze individuali, ma sondando i bisogni collettivi, nel rispetto delle attitudini e, al caso, certamente, anche delle tradizioni.
Che fare allora? La domanda è stata posta alla comunità, e le risposte non sono tardate. Le donne hanno chiesto un pollaio, una sartoria, gli uomini una falegnameria, l’allevamento di maiali, e tutti necessitano del bene preziosissimo dell’acqua potabile.
L’ideazione dei progetti è demandata inevitabilmente agli intellettuali del posto. A chi ha studiato, ossia ai membri delle varie confessioni religiose cristiane presenti in zona. Queste si rivelano molto più unite e coese di quanto non avvenga all’interno della nostra cristianità occidentale. Ecco un esempio ecumenico africano da imitare, ecco dove Gesù si sentirebbe a suo agio, dove il Maestro sorriderebbe, tra gli ultimi.
Claudio quindi affida l’elaborazione e l’esecuzione di ogni singolo progetto ai cristiani, tutti collaborativi nella pace, ma ogni famiglia e ogni persona, indipendentemente dal suo credo, è chiamata a realizzare, a produrre, ad usufruire di ogni bene nella giusta misura e non secondo logiche egoistiche.
Sia Claudio, sia altri amici e benefattori italiani si sono recati recentemente in Tanzania a Ngombezy. Essi hanno constatato la positività e la vitalità delle iniziative, lo sviluppo sociale, palpabile del villaggio, e la voglia festosa di crescere, di non restare indietro gli uni rispetto agli altri, ma in uno spirito di auto-aiuto.
La parola competizione, nel senso negativo del termine che ingloba arrivismo e sfruttamento, lì è ancora sconosciuta. Forse per ciò la gioia è diffusa nei volti, nonostante l’estrema povertà. La nobiltà di vita legata alla natura possente e incontaminata esercita una fascinazione indimenticabile negli ospiti bianchi, sempre accolti come fratelli. Mal d’Africa, si dice…La conduzione della falegnameria è stata affidata alla Chiesa Cattolica, il pollaio e la raccolta di acqua piovana (con un ingegnoso metodo di caduta in cisterna) alla Chiesa Lutherana, la sartoria alla Chiesa Anglicana e l’allevamento di maiali alla chiesa Pentecostale.

Il 5 aprile 2010 le costruzioni in muratura e le strutture realizzate, all’avvio dei progetti, sono state inaugurate alla presenza di Claudio e di tutte le autorità del luogo, autorità civili e religiose. I discorsi sono corsi chilometrici e autentici, i canti hanno riempito l’aria del mezzogiorno fino alle 2 post meridiane, tutti i presenti si sono calati nella parte di protagonisti, dai vescovi ai bambini.
E poi… festa grande a Ngombezy, grande come nessuno l’aveva vista mai!
Gocce ha ordinato un mega pranzo per 300 persone. Ecco l’inconsueto e abbondantissimo Menù: pollo e patate fritte, spezzatino e riso bianco, un’autentica manna.
Eccoli tutti in fila verso l’aia della casa del sindaco a farsi riempire il piatto. Ovunque, appesi agli alberi di mango, alle palme, festoni, e fili di fiori.
E poi tante danze.
Anche il nostro missionario è stato trascinato nel gorgo, e non ha detto di no, perché nei momenti speciali non si può restare a guardare come freddi spettatori. Doveva suo malgrado accontentarli. E poi, e poi…Una bellissima riflessione come finale, basata sulle parole di Claudio, servo inutile come tutti noi:
“Dio non è la Banca dei poveri, però Dio deve servirci per aiutare i poveri a non essere più tali. Dio, per chi crede, deve servire a lottare per un mondo migliore per tutti e non per i più furbi. Non è più accettabile che una esigua minoranza viva tra marmi, ori, arazzi e porcellane e tutte le comodità, e una maggioranza sofferente viva di stenti e muoia di malaria, TBC, dissenterie varie, che milioni di bambini muoiano di fame e di sete. Dio non può volere tutto ciò. Nessuno potrà mai crederci”.
E se il non credente si scandalizza perché Dio, ammesso per un istante che esista per lui, lascia fare e permette il proliferare del male, e se il non credente ritorna subito tale, si ritrae avvilito, o colmo di rabbia e disgusto, noi credenti servi inutili suggeriamo al suo intendimento più intelligente ed onesto: guarda più a fondo. E continuiamo dicendo: La tua indignazione è divina, è la pietà di Dio stesso, è prova di Dio che ci rincorre, ci stimola, ci insegue per indurci ad essere suoi collaboratori. Collabora con Dio, il male non avrà più la forza che gli attribuisci. Di più, come scrive Goethe nel Faust, il male, Mefistofele, è colui che vuole il male e opera sempre il bene.
Chi può intendere intenda.
Questa è la vita.
Dio, Gesù per noi, nella Cena indelebile nel tempo e nella storia, cinse i suoi fianchi con un asciugamano e lavò diversi piedi polverosi e puzzolenti con l’umiltà di uno schiavo fedele, inchiodato alla necessità, consenziente.
Questa è la risposta.
L’unica risposta possibile, sufficiente e risolutiva.
Se un libro esiste al mondo che la contiene, quale meraviglia e tesoro costituisce esso, nelle parole e nelle immagini a cui noi, i sottoscritti, aderiamo, attingiamo per rinascere in ogni istante e per sempre.
Questo libro, ovviamente, è il Vangelo.