La mattina era dedicata a piccoli lavori di casa, visite al villaggio, uscite in città. Si pranzava intorno alle 13. I pasti erano semplici e veloci “da piatto unico”! Patate, fagioli, riso (immancabile) qualche volta carne e ugali (la tipica polenta con farina di tapioca). Si beveva acqua in bottiglia (in casa non esisteva l’acqua corrente) e si finiva con una tazza di thè. Il pomeriggio, dopo il riposo e passate le ore più calde, rimanevo nei dintorni della casa. A volte con i ragazzi di Padre Joel si suonava po’ di musica, altrimenti ci si intratteneva a conversare o ad accogliere gli ospiti che arrivavano dal villaggio. Verso le cinque salivano anche i bambini. La loro curiosità di conoscere nuove persone, semplificava la nostra comunicazione. Ci divertivamo con le altalene e lo scivolo, altre volte ci si sedeva tutti intorno a giocare con sassolini o rametti. Verso le 17 arrivavano le ragazzine del coro, per le prove dei canti da proporre durante la messa. Verso le 18 ci si organizzava per la doccia, ognuno aveva un secchio a disposizione che doveva bastare anche per un eventuale bucato.
Vista la nostra nazionalità ci fu affidato spesso di cucinare la cena. Nonostante i fornelli a carbone bassi al limite del mal di schiena, l’attrezzatura non molto adeguata, i tempi infiniti di cottura e le pericolose galline che gironzolavano aspettando il momento buono per beccare il pomodoro per il sugo (in Tanzania non ho visto tavoli da cucina) riuscimmo a produrre pietanze più che commestibili.
In effetti, vista la semplice cucina di quei luoghi, anche una pasta con il pomodoro poteva risultare un piatto prelibato, specie se l’acqua veniva salata e non zuccherata come mi capitò di vedere e di……mangiare.
Dopo cena, finite le preghiere, si rimaneva ancora un po’ a tavola a bere thè ed organizzare le attività per il giorno successivo. Alle 21 tutti erano a letto.
Il periodo natalizio mi permise comunque di assistere momenti molto coinvolgenti della vita del villaggio. Ricordo le lunghe messe (celebrate ovviamente in swahili) dove fu interessantissimo osservare i modi e le usanze con le quali preti e fedeli vi partecipavano, l’arrivo di ospiti importanti da altre città, la maniera nella quale anche nell’Africa nera si festeggia il Natale. Ma la cosa più importante fu che nei giorni trascorsi a Ngombezi ebbi modo di provare a vivere in maniera profondamente diversa dalla quale sono abituato. La mia consapevolezza di essere una persona che vive con poco fu demolita solo dopo pochi giorni. L’uso dell’acqua, quello dell’elettricità, la quantità di cibo sul piatto, il modo di intendere il tempo mi portarono a pensare e a riflettere sull’essenziale. E come ogni volta, di ritorno dai paesi più poveri del mio, mi sono ritrovato circondato da molte cose superflue.
L’esperienza africana non si è limitata solo al villaggio. Padre Joel ci aiutò ad organizzare piccoli spostamenti di due o tre giorni in varie zone vicine a Korogwe. Vidi le meraviglie del parco del Ngoro Ngoro, l’oceano indiano delle spiagge di Pangani, il verde lussureggiante della foresta tropicale di Lushoto, il caos e la povertà delle grandi città.
Sono tornato ormai da cinque mesi, e la quotidianità della vita ha preso il sopravvento sulle sensazioni provate in quei giorni. Nel riscrivere questi veloci appunti di viaggio ritornano alla mente: volti, scene, immagini, situazioni. Si rinnova in me l’importanza della dimensione del viaggio, quando questo ha lo scopo di andare verso gli altri per conoscere, per condividere; e quanto
tutto questo confrontarsi con gli altri e con le varie situazioni da affrontare mi aiuti a crescere.