La prima volta che ero sceso in strada uscendo da un albergo in un quartiere denso di gente e di vita, avevo avuto la sensazione che quella fosse la mia vera “casa”; che quella poteva dirsi una comunità, a differenza dei nostri freddi agglomerati di individui. Le impressioni raccolte a Nairobi hanno avuto un riscontro diversi anni dopo a contatto con l’umanità di Ngombesi, il villaggio di Padre Joel, dove la povertà si accompagna ad una grande dignità e compostezza, e gli abiti variopinti delle donne fanno dimenticare per un attimo le misere abitazioni messe insieme con stecchi e argilla, e la fatica di portare, percorrendo i sentieri in terra battuta, i secchi d’acqua sulla testa. Difficile descrivere le emozioni procurate dalla gentilezza e dall’accoglienza (autentiche e non di facciata) di questa gente; il sorriso (sincero) su volti che avrebbero mille ragioni per esprimere solo disperazione. E’ inevitabile che, laggiù, si faccia un confronto (impietoso per noi) tra i nostri bambini e i loro: tra i capricci di un mondo sazio e lo sguardo responsabile di cuccioli cresciuti in fretta. Le ore passate con Padre Joel e i bambini che ruotavano numerosi intorno alla casa, durante i giochi, o nel momento della preghiera prima del pasto frugale, o ascoltando i canti dei piccoli e degli adulti durante la messa, sono state un assaggio di vita cristiana e un balsamo per il mio cuore di occidentale. Allora tutto assume un senso più pregnante e intenso: il denaro versato su un conto corrente in modo asettico per orfani lontani di un altro continente, qui diventa qualcosa di vivo e palpabile.
Fiorenzo