Quel viaggio mi era stato prospettato da Claudio. “Vai a vedere la realtà di quella popolazione. Se non vedi con i tuoi occhi non ti renderai mai conto delle loro vere condizioni di vita. Eppoi, tu non andresti come turista, ma come persona che può aiutarli, che può insegnare loro “qualcosa”, qualcosa dalla quale, piano piano, potrebbero trarre profitto, sostentamento. Tu hai esperienza in tante attività femminili, sei esperta nel campo della sartoria, … insegna loro quello che sai fare! Sai, da cosa nasce cosa; da un piccolo seme nasce una pianta ….. è un goccia nell’oceano, lo so, ma l’oceano non è formato da gocce?”
Mio figlio si era offerto di accompagnarmi per non mandarmi da sola in quell’”avventura”; poi però, non avrebbe mai rinunciato a quell’esperienza, tanto è vero che è partito senza di me il giorno 31 marzo, perché io ero ammalata.
Andrea, che Dio ha voluto donarmi in uno slancio di infinito Amore e le cui meravigliose doti non posso, ovviamente, elencare, – sono sua madre! – si era reso disponibile con Claudio sin dalla prima volta che lo aveva conosciuto, in occasione della presentazione di un suo libro.
Era entusiasta, tanto più che il giorno 5/04/2010, Claudio avrebbe inaugurato quattro progetti nel villaggio di Ngombezi: un laboratorio di sartoria, uno di falegnameria, un impianto per la raccolta dell’acqua piovana ed un allevamento di polli. Ciascun progetto sarebbe stato gestito da una delle diverse comunità religiose locali: anglicana, di cui fa parte Padre Joel; cattolica; luterana e pentecostale.
Dar Es Salaam è una città infernale, caotica! Si respira …. anzi, non si respira! L’aria è satura di smog, di esalazioni di varia natura: di pesce, di immondizia, di acqua putrida, ma soprattutto di ossido di carbonio proveniente dai tubi di scappamento delle vecchissime auto, ferme lungo l’unico stradone che dal centro della città porta fuori, ferme, anche per ore, a causa di un unico incrocio, senza semaforo. Ebbene, in quel caos, gli unici che ne beneficiano è la gente comune, sono i poveri che, approfittando delle forzate e lunghe soste dei viaggiatori, cercano di vendere di tutto: dall’acqua minerale alle banane; dalle confezioni di pane in cassetta (non esiste altro tipo di pane) alle arachidi in bustine; dall’ananas alle ciotole di legno, e così via.
La stragrande maggioranza della popolazione è poverissima. Non pagano le tasse (e come potrebbero?) ma lo Stato non provvede assolutamente alle loro bisogna. Le strade (al di fuori di quelle poche delle grandi città) sono in terra battuta, piene di profonde buche che quando piove (e gli acquazzoni sono frequentissimi) si riempiono di acqua e fango. Le capanne se le costruiscono da soli, con legni, fango denso e paglia, oppure, con mattoni fatti da loro con terra impastata con acqua ed essiccati al sole e lamiere ondulate per tetto. Alle scuole si può accedere solo se si è in grado di pagare la retta, la divisa, il materiale. Il lavoro se lo devono “inventare”.
Fortunatamente lontano dalle grandi città si respira aria sana; c’è tanta vegetazione, tanto verde, specie in questo periodo in cui cominciano le piogge.
Il giorno che arrivai, Padre Joel mi stava aspettando per iniziare la S.Messa. E’ usanza che gli ospiti abbiano in chiesa, e non solo, il posto d’onore (è straordinario come pur nella loro semplicità, povertà, mantengano vivo il rito dell’ospitalità), pertanto, io ed Andrea siamo stati fatti accomodare su delle sedie di plastica, in prossimità e al lato dell’altare, e non sulle panche di legno insieme alla gente del villaggio.
Il caldo e l’umidità (che in Tanzanìa raggiunge anche il 98 per cento) la fecero da padroni, sicche per tutta la funzione mi asciugai il sudore e mi “sventolai” con il ventaglio che fortunatamente mi ero portata.
Alzati gli occhi al soffitto compresi il perché di quel caldo infernale: sopra delle travi di legno c’erano soltanto delle lastre di lamiera ondulata.
Finito il rito, Padre Joel mi prese per mano e mi condusse al centro della chiesa. A quel punto alcune donne si fecero avanti e lessero ognuna un biglietto: erano parole di benvenuto, ovviamente, in lingua Kiswaily. Padre Joel tradusse in inglese, poi attesero che parlassi io. Con voce rotta dall’emozione ringraziai per quell’accoglienza così calda, così profondamente umana e rara, rara e sconosciuta nel mondo occidentale (e civile) da cui provengo. Andrea tradusse in inglese e Padre Joel in swaily.
Non potrò mai dimenticare le gentilezze, le premure, la disponibilità dei ragazzi orfani, ospiti nella casa di Padre Joel. Ricordo il primo pasto consumato insieme a loro. Per prima cosa c’è il rito del lavaggio delle mani, poi la preghiera . Mi accingevo a mettere in bocca il primo boccone quando David, un orfano di 13 anni, mi ha tolto di mano la forchetta, ha preso dal mio piatto un pezzo di polenta e, accompagnando il gesto con un sorriso, mi ha imboccato. E così hanno fatto altri due orfani, Petro (il ragazzo delle faccende domestiche ) e Mudi, un bambino dolcissimo di sette anni circa. In questo modo onorano l’ospite.
Alla fine di ogni pasto si recita il ringraziamento.
Mio figlio mi ha raccontato un episodio che rivela quanto sia radicata in loro la consapevolezza dell’importanza del dono, da parte della Divina Provvidenza, del prezioso cibo. Il giorno di Pasqua era in chiesa, faceva un caldo insopportabile, la cerimonia, iniziata da più di tre ore (in effetti è durata cinque ore) era a metà del rito. Ad un certo punto le palpebre sono diventate pesanti, stava per addormentarsi quando una piccola mano ha stretto la sua. A quel contatto ha aperto gli occhi ed ha visto un bambino il quale lo ha attirato a sé costringendolo ad alzarsi ed a seguirlo. Lo ha condotto nella sua vicina casetta e gli ha offerto una Fanta ….. ma prima gli ha fatto recitare le preghiere!
Mi si stringe, tutt’ora, il cuore al pensiero di quanto sia povero il loro desinare. I cibi che si possono permettere, e in quantità molto ridotte, sono: polenta, fagioli, un tipo di verdura selvatica, cavolo verza, pomodori in scatola, patate, pesciolini piccolissimi essiccati (che noi “civili” usiamo nella frittura), frutta locale come piccole banane e avocado. Raramente si concedono la carne. Andrea mi ha raccontato che una sera per cena, oltre al riso c’era anche del pollo. Battiti di mani, sorrisi, poi …. Poi si accorse che la coscetta che doveva essere di pollo, forse era di uccelletto, tanto era piccola. In più, i pezzetti di pollo erano contati: uno per ciascuno, e loro erano in cinque.
Andrea sentì stringersi il cuore al pensiero che a lui, ospite, avevano dato la parte migliore! Per colazione: latte in polvere, caffè liofilizzato, pane in cassetta e qualche volta marmellata. Questo, tutto l’anno.
Con Padre Joel vivono tre ragazzi orfani (quando non di più), uno dei quali, Lewis, è figlio di suo fratello, morto, la cui madre non è in grado di mantenerlo.
Padre Joel ha circa 37 anni ed è l’ultimo di 17 figli. E’ alto e magrissimo ed è di una dinamicità impressionante.
A proposito di figli! In uno dei giorni in cui insegnavo le basi della sartoria (più a gesti che a parole) ad alcune donne del villaggio, queste mi chiesero quanti altri figli avevo, oltre ad Andrea. Consultato, come sempre, il vocabolario in lingua swaily e appreso che cosa mi chiedevano, risposi loro che non ne avevo altri. Sguardi increduli, di meraviglia e mormorii fecero eco alla mia risposta. Ognuna di loro, allora, con orgoglio, mi disse quanti ne aveva: chi 12, chi 8, chi 15, … la meno prolifica ne aveva sette, ma era anche la più giovane! In un certo senso, la loro meraviglia è stata per me una denuncia: – Ma come! Io che vivo in un mondo dove regna il benessere, dove la civiltà, la scienza, la tecnologia, hanno raggiunto livelli inimmaginabili per quelle popolazioni, livelli che forse potranno raggiungere fra qualche secolo; io, che potrei avere i mezzi per allevare decentemente più figli ….. – Ebbene, mi sono vergognata. Sì, perché, in fondo mi ha fatto riflettere sul perché noi donne di un mondo così “avanzato” procreiamo così poco di questi tempi, anzi, le statistiche denunciano: natalità vicino allo zero. Abbiamo paura di non farcela ad allevare dignitosamente i nostri figli; abbiamo paura di togliere il tempo alla nostra ambizione di successo; abbiamo paura di non poter avere più tempo libero per le nostre necessità personali: svago, cura di sé stesse, hobby e tante altre.
Un’altra cosa mi ha fatto riflettere: le loro case, che dico! casupole, capanne, sono spoglie, sono, esattamente,, “essenziali”. Entrando in queste case si nota che non c’è differenza tra il pavimento dell’abitazione e la strada sterrata che sta fuori. Terra, terra rossa, sempre e ovunque, sia nel piccolo vano appena si entra, che funge da cucina, da soggiorno e dove, tutt’al più, ci può essere un piccolo armadio e un tavolinetto che serve soltanto per appoggiarvi ciò che occorre per preparare il pasto, sia nella stanza che funge da dormitorio. In quella stanza vi si può trovare, o un grande letto (se così osiamo chiamarlo), nel quale dorme tutta la famiglia, oppure, nella maggior parte dei casi, pagliericci appoggiati direttamente in terra. Bevono acqua piovana bollita e raramente acqua minerale, riservata esclusivamente agli ospiti. La preparazione del cibo avviene fuori, all’aperto, e i cibi vengono cotti su fornelli di ghisa con carbone. Sono gli stessi che usavano le nostre nonne nei primi anni del novecento.
Dicevo, mi ha fatto riflettere: forse, se spendessimo meno soldi per “addobbare”, “rimpinzare” le nostre abitazioni con un’infinità di ninnoli, suppellettili, libri, mobili, quadri, vestiti, ecc., i quali, non solo ci tolgono spazio, aria, ma ci costringono a passare molto più tempo a pulirli; ripeto, se avessimo chiaro il concetto dell’”essenziale” forse ritroveremmo quella dimenticata vitalità e forza che scaturisce dalla procreazione e riproveremmo la gioia che si prova nel donare amore.
Quell’esperienza è stata provvidenziale per tanti motivi: Mi ha fatto provare tenerezza e tanto affetto per quei giovani, quei bambini orfani; sono affettuosissimi, rispettosi, non alzano mai la voce, premurosi, sinceri. Mi chiamavano Mama. Potevano finalmente pronunciare quella parola che vorrebbero sempre pronunciare.
Gabriella Tondinelli